CARAVAGGIO E L'INVENZIONE DEL LAZZARO - In mostra a Palazzo Braschi il capolavoro restaurato (di Michele Cuppone)


Caravaggio, geniale inventore di immagini dalla potente forza comunicativa. Che, dopotutto, è la più grande riconferma che chiunque potrà verificare a Palazzo Braschi, se altrimenti la Resurrezione di Lazzaro si espone quasi timidamente in una rara occasione capitolina (a breve replicabile nell'originario museo regionale messinese).
Nell'allestimento pur apprezzabile concettualmente e per semplicità, quasi a riprodurre nel grande spazio vuoto e buio antistante l'opera quello incombente sul gruppo di personaggi raffigurati, l'illuminazione difatti fa parlare troppo di sé per inadeguatezza. Sebbene questione di soluzione problematica per grandi tele e per di più scure e riflettenti come questa, da una mostra incentrata su di una sola opera ci si aspettava comunque uno sforzo maggiore.
Passa dunque in secondo piano il motivo dell'evento, l'operazione di restauro da parte dell'ISCR grazie al contributo privato, rivedendo quello del 1951. Sull'opera che proprio l’intervento umano, travisandone le timbriche scure, in passato ne ha compromesso stato conservativo e leggibilità, si constata quel che più appare, l'utilizzo cioè di una vernice più opaca del solito (nelle scelte innovative di cui Caravaggio si fa qui pioniere), che contribuisce in qualche modo a mimetizzare l'intervento. Molto si deve apprendere in tal senso dal nutrito catalogo – ben documentato su materiali e metodi e condensato esemplarmente nel funzionale apparato didattico di sala – pressoché tutto incentrato sugli aspetti tecnici ma trascurando autoreferenzialmente quanto realizzato e acquisito nel recente restauro dell'Adorazione dei pastori, confronto più diretto per comune cronologia e storia conservativa, i cui esiti si sarebbero dovuti porre a sistema, nell’ottica pure già intrapresa sulle opere romane e ai fini di ampliare le conoscenze caravaggesche su tecnica pittorica e del restauro. Nel volume non passa inosservato anche un certo potenziale inespresso nell’approfondimento scientifico, per i mezzi oramai irrinunciabili, sul versante della diagnostica per immagini. Forse, si sarebbero potuti addurre elementi utili alla questione di non poco conto dell’autografia della fascia sottostante, aggiunta in un secondo momento ma che ad ogni modo non scalfisce il senso di ineluttabile gravità comune alla produzione isolana dell’artista.
In definitiva, l’attenzione è tutta calata sulla grande invenzione del Lazzaro che sorge a nuova vita, in perfetta sintonia con la condizione esistenziale del pittore latitante in cerca di riscatto, tanto che per le fonti fu egli stesso a proporre al committente tale iconografia, forse raffigurandosi poi in atto di contrizione a mani giunte. Una composizione inquieta, senza un unico fulcro e nella moltitudine ondeggiante di astanti, alcuni chini come pescatori messinesi sulle reti, nella trama di linee diagonali su cui si innesta il gesto del Cristo, idea di recupero dalla Vocazione di san Matteo e ancor prima dalla Creazione michelangiolesca, nella geniale rivisitazione della mano del Lazzaro-Adamo protesa verso l’alto, centro-isolato del quadro.
Il tutto è ancor più sorprendente pensando al precario contesto siciliano, tra i meno indagati e che anche alla luce di tale capolavoro va rivalutato con la debita considerazione da parte del grande pubblico avvezzo più ai bagliori della maturità romana. Un Caravaggio se possibile sempre più drammatico, ma di un’umanità rassegnata oltre che intensa, certo contagiosa. Non sarà difficile, al cospetto, sentirsi parte integrante di quella pittura.

Michele Cuppone (Roma, 30 giugno 2012)