Un saggio mette in dubbio
che nella Vocazione il santo
sia davvero quello che finora
si è creduto. Ecco perché.
Un attimo, lettore! Possiamo convenire con te che, tra deliro-attribuzioni, lunari e pataccate; finte-copie tardive, spacciate però, mercantilmente, per autentiche; vispe agnizioni settimanali, per cui ogni stagione si regala il suo nuovo, immaginario pseudo-Caravaggio, parto-isterico di prezzolati, che sognano la facile tribuna della notorietà; al solo nome di Caravaggio, è legittimo tu voglia voltar pagina e fuggir via.
Ma questa è una proposta diversa e più intrigante, perché per certi versi funziona proprio per mettere in discussione le nostre «idee ricevute» e capire che la storia dell’arte è un percorso in perenne cammino e non c’è bisogno di frugare gli abbaini dei ferrivecchi, per tornare a ragionare saggiamente d’interpretazione critica e scoprire qualcosa di «nuovo». Magari entro le viscere di un capolavoro iper-conosciuto, iper-analizzato, iper-visitato, come la Vocazione di san Matteo, nella Chiesa di San Luigi dei Francesi, a Roma. Attenzione: non che si voglia disattribuire, questa volta, il grande telero a Caravaggio (che sarebbe una bella bufala!) o cambiare le date in tavola (ché per fortuna son noti ormai i documenti giusti della commessa, confutando tante illazioni critiche) ma provandosi a «disattribuire» un personaggio, Matteo, quello che tutti, avvicinandosi al buio della Cappella Contarelli, son convogliati a ritenere (per diceria secolare, da Bellori a Baglioni a Sandrart) esser lui, quello più in vista: affascinante, ben abbigliato, in primo piano cinematografico (avrebbe scherzato Longhi) tutto agghindato dalle truccatrici, per accogliere il bacio salvifico della luce di Dio. E se invece (e non per capriccio, ma per fonde meditazioni critiche ed iconologiche e liturgiche ecc. ecc.) si provasse a scivolarlo, quale pedina, sulla scacchiera ormai decotta dell’acquiescenzia critica? Secondo una formula dubitativa che suggerisce: «E se Matteo fosse quell’altro?»........CONTINUA A LEGGERE L'ARTICOLO DI MARCO VALLORA SU LASTAMPA.IT