Ci vorrà un po' di tempo per metabolizzare i contenuti specifici delle 576 pagine di catalogo della mostra Caravaggios Herben, Barock in Neapel, aperta fino al 12 febbraio nel Museo di Wiesbaden, curata da Peter Forster, Elisabeth Oy-Marra, Heiko Damm, e corredata da un gran numero di sezioni e saggi specifici. Un fatto, però, non è in discussione: si tratta del più vasto e articolato sforzo negli ultimi quindici anni di restituire la civiltà artistica napoletana in quelli che furono due dei suoi tre secoli di maggior splendore, e cioè il Sei e il Settecento. Ed è uno sforzo interamente concepito e progettato fuori di Napoli, e - con poche eccezioni - da un'équipe non italiana, ma prevalentemente tedesca. La mostra di Wiesbaden ripete in buona parte e attualizza con buon equilibrio l'impianto del progetto sulla mostra del Seicento napoletano a Capodimonte (1984-85), e cioè di quello che - a prescindere dall'avanzamento successivo degli studi specifici - è stato il vero lascito di Raffaello Causa alla attuale visione storiografica sul Barocco del Meridione continentale d'Italia.
Ben 14 saggi in catalogo vanno dallo sviluppo urbano della città alla rivolta di Masaniello del 1647, al passaggio di Caravaggio; e si prosegue con la transizione dalla tarda Maniera al Caravaggismo per poi andare ai due grandi protagonisti/rivali emiliani della decorazione barocca, Domenichino e Lanfranco, andando avanti con Jusepe de Ribera, Salvator Rosa e Francesco Solimena; e con i disegni e le nature morte. Molto ci sarebbe da discutere su questa struttura, che poggia su un perno robusto nella parte dedicata alla prima metà del Seicento per indebolirsi sempre più, e addirittura quasi scomparire in quelle successive, scontando in ciò il gap di studi che ancora caratterizza la conoscenza dei percorsi dei molti artisti anche gli stessi scultori e architetti - che si posizionarono a Napoli al di fuori della triade aurea di Mattia Preti, Luca Giordano e Francesco Solimena. Dunque si ricade in una visione per la quale sotto le insegne della koinè di Caravaggio sempre buona a fini di marketing - ricadono anche personalità artistiche come Francesco Solimena, Paolo de Matteis e persino Gennaro Greco e Francesco de Mura (morto nel 1782!). Artisti che con Caravaggio, con la sua tradizione e il suo seguito non ebbero mai alcun rapporto.
Si sa che le categorie storiografiche sono come grandi scatole in cui si tende a mettere molte cose accomunate da caratteri che in una certa fase appaiono unificanti; e si sa che non di rado accade che qualche decennio dopo sia necessario tirare di nuovo tutto fuori e rassettare non solo i caratteri, ma anche la periodizzazione, etc.; tutte cose che, per la verità, in Italia sono anche state pensate e scritte negli ultimi vent'anni anche in grandi mostre in cui non c'era solo il puro accumulo di materiali, per pregevoli che fossero (per la verità a Napoli non è mancato neanche questo tipo di esposizioni). In ciò il telaio della mostra di Wiesbaden non appare esattamente roccioso, a prescindere dalla qualità dei singoli apporti.
La forza della rassegna è invece nelle 212 opere in esposizione, perlopiù dipinti e disegni provenienti da collezioni principalmente mitteleuropee e tedesche, ma anche da non pochi musei e collezioni internazionali. Qui e là ci si imbatte in attribuzioni discutibili ma resta una magnifica parata, che un pubblico non specializzato non ha mai visto in Italia, specie i disegni. Una bella mano l'ha data Capodimonte con ben 20 dipinti, altri 2 provengono dal Museo di San Martino, ma a Wiesbaden non hanno allestito una mostra di giro, e chi può faccia un salto in Germania; ne vale ampiamente la pena.
Fonte: Il Mattino