Recensione di "Da Caravaggio. Il San Giovanni Battista Costa e le sue copie. Atti della giornata di studio", di Michele Cuppone


Escono nel giro di un anno, grazie anche a una veste editoriale snella in forma di fascicolo, gli atti della giornata di studio tenutasi a Empoli l’11 aprile 2015, i cui lavori furono aperti da Mina Gregori e presieduti da Bruno Santi e che vide la partecipazione di specialisti e studiosi di respiro internazionale. Da Caravaggio. Il San Giovanni Battista Costa e le sue copie prendeva le mosse dal restauro della copia, custodita presso la chiesa di S. Stefano degli Agostiniani, dell’omonimo quadro caravaggesco del Nelson-Atkins Museum di Kansas City. Ma appunto, illustrate le novità storico-documentarie e tecnico-diagnostiche sulla versione concittadina, si ricollegava all’originale e alle altre copie note, purtroppo non tutte di facile fruizione e studiate come ora quella in oggetto, per estendere lo sguardo su altri aspetti di particolari interesse e fascino. Gli atti, vedremo meglio, si sono arricchiti di un ulteriore contributo rispetto ai già molteplici contenuti del simposio: se molto sapevamo o pensavamo di sapere del prototipo merisiano, questa pubblicazione riserva sorprese anche su di esso
Non possiamo non condividere l’opinione diffusa, con cui apre Nicole R. Myers, secondo cui il Battista Costa è il Caravaggio di qualità più elevata, per non dire il più bello, tra quelli conservati in America. In una lussureggiante vegetazione che è una convenzionale trasfigurazione del deserto in cui predicò il santo, non priva di valenze simboliche anche per la presenza del verbasco, fa bella mostra di sé, riparato sotto una quercia, un prestante e scapigliato ragazzotto dallo sguardo più torvo che meditativo, che Merisi ha ammantato di porpora e pelle animale aggiungendovi poi una croce di canne, il tutto bastevole a dare la parvenza di un giovane Battista a quello che altrimenti potrebbe apparire il vivace e originale ritratto di un suo conoscente. Quanto ci tenesse Ottavio Costa ai tre quadri del milanese in suo possesso, lo sappiamo bene dalle disposizioni testamentarie in cui raccomandava agli eredi di non alienarne nessuno, specie la Giuditta (il terzo è il San Francesco di Hartford). Eppure fu lo stesso, geloso banchiere a permettere che ne venissero tratte precocemente delle copie; per lo meno ciò accadde con il San Francesco da cui si ricavò la copia ora ai Musei Civici di Udine, e con il San Giovanni destinato all’omonimo oratorio della natia Conscente ma che, proprio per il suo valore tanto estetico quanto certamente affettivo, Ottavio decise di tenere per sé e sostituire con una copia, attualmente al Museo Diocesano di Albenga. 
Non è dato sapere in quali occasioni furono realizzate le altre versioni che, ricordiamo, sono quella di Capodimonte in cui Roberto Longhi inizialmente ravvisò l’originale, prima che questo fosse individuato in Inghilterra, e, molto meno note (così anche per alcuni relatori del convegno), una in collezione Kenmore a San Francisco e da ultimo una passata in asta presso Sotheby’s a Londra nel 2010. E poi naturalmente questa di Empoli su cui ci si sofferma negli atti [...]

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