Nuova intervista caravaggesca di About Art online. Parla Rossella Vodret
La prima questione che ti vorrei porre riguarda le prove diagnostiche sulle opere d’arte di cui sei una promotrice –in particolare ti sei occupata di Caravaggio-; lo scopo consiste nello stabilire quale è stato l’iter compositivo di un’opera, o non anche ad accertare quale mano l’abbia realizzata ? cioè a tuo parere si potrà magari arrivare un domani, con un complesso di apparecchiature ancor più sofisticate, anche a una simile eventualità?
R: No, assolutamente. Non credo proprio che si potrà mai arrivare a definire quale mano abbia dipinto un’opera. Le indagini possono essere d’aiuto nello studio di un’opera d’arte perché ci danno da una parte informazioni sulla materia fisica di un’opera (per esempio il tipo di tela, di preparazione, la composizione dei colori ecc.) dall’altra, attraverso le radiografie e le riflettografie a infrarosso, su ciò che non possiamo vedere a occhio nudo perché nascosto al di sotto la pellicola pittorica. Mi riferisco in questo caso soprattutto al processo creativo che ha seguito l’artista per arrivare eseguire la sua opera (per esempio il disegno o le modifiche della composizione). Le macchine possono aiutare, ma mai potranno individuare la mano dell’autore, perché questo è il compito dell’occhio dello storico dell’arte. Spetta allo storico dell’arte avere una visione d’insieme e valutare tutti gli elementi relativi a un’opera d’arte a cominciare dalle caratteristiche stilistiche, dai documenti, dalle fonti biografiche, dall’esame del contesto, dall’iconografia e molto altro ancora. A questo esame fondamentale, si possono aggiungere anche i risultati delle indagini. E’ il conoscitore che può fare un’attribuzione, non certo le macchine.
-Abbiamo registrato nella nostra inchiesta su About Art a questo riguardo, il parere di molti studiosi, tecnici, restauratori; tra costoro Vittorio Sgarbi è stato del tutto tranchant affermando che non servono affatto, Alessandro Zuccari ha affermato che bisogna andarci cauti e che le prove diagnostiche non sono affatto probanti. Cosa ne pensi?
R: Intanto fammi dire che mi stupisce questa alzata di scudi, questa sorta di demonizzazione della diagnostica, perché, come ho sempre scritto e come ripeto ancora una volta, essa altro non è che uno strumento, utilissimo, che gli storici dell’arte hanno a disposizione per completare lo studio di un’opera, insieme all’analisi stilistica, ai documenti, al contesto e a tutte le cose cui accennavo prima; dunque è solo uno strumento, e come tale va considerato, non in contrapposizione al conoscitore, ma di cui il conoscitore si può servire, se lo ritiene opportuno.
– Tuttavia devo farti notare che una delle osservazioni maggiormente ricorrenti nella nostra indagine ha riguardato il rischio che la diagnostica comporterebbe, cioè di un ridimensionamento dell’analisi del linguaggio pittorico, dello studio dei documenti, della ricerca d’archivio, dei confronti testuali, insomma di quella che è solitamente la prassi che impegna lo storico dell’arte. E’ un rischio che intravedi?
R: Ma assolutamente no, non è così, il ruolo dello studioso o del conoscitore è e resta fondamentale, il primo strumento di conoscenza è il suo occhio, l’occhio del conoscitore. Poi è necessario lo studio e la ricerca … Questo rischio non esiste.
– D’accordo, però ammetterai che i risultati delle analisi diagnostiche occorre pure saperli leggere, perché –come ci ha detto Davide Bussolari- spesso la lettura dei riscontri non è univoca.
R: Esiste un problema di base, vale a dire che i macchinari non sono tutti uguali e di conseguenza è vero che possono fornire risultati diagnostici a volte disomogenei. Che cosa occorre fare dunque per ovviare a questo rischio? E' necessario che i risultati rispondano a determinati standard qualitativi, ed è esattamente la prima preoccupazione che abbiamo avuto [...]
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