"Novità e conferme dalla 'Vita di Caravaggio' di Gaspare Celio", di Clovis Whitfield


La recente pubblicazione della biografia di Caravaggio di Gaspare Celio, (vedi Riccardo Gandolfi, in Storia dell’Arte 151/152, Nuova Serie, 1/2, 2019, p. 137-151) presenta nuove impressioni in base ai suoi ricordi circa l’arrivo a Roma del lombardo e ne conferma altre. È un grande evento aver individuato ed ora pubblicato una prima biografia dell’artista, e mentre stiamo ancora aspettando che esca l’opera completa del Celio (sembra che più di duecento biografie rimangono inedite), questa su Caravaggio è un’aggiunta gradita a ciò che sappiamo del suo arrivo a Roma. Una bozza del testo scritto nel 1614 delle Vite (ma modificata in seguito) è la prima biografia, a parte la menzione nel racconto di Carel van Mander sull’artista derivata dal suo corrispondente a Roma (1600/1601), Floris van Dyck. Vi è la conferma del primo incontro di Prospero Orsi e le affascinanti informazioni secondo cui tra i molti luoghi in cui Caravaggio trovò alloggio c’era la sua casa (sopra una taverna nelle vicinanze di Palazzo Barberini), dove lo vide dipingere un liutaio, e che Vincenzo Giustiniani ebbe un ruolo nel garantire il perdono a Caravaggio necessario per tornare a Roma.
In primo luogo Celio chiarisce che Del Monte voleva un giovane pittore “un giovanetto che gli andasse copiando qualunque cosa” che potesse fare alcune copie per lui, e dopo averlo cercato tutto il giorno, Prospero lo trovò addormentato presso la statua di Pasquino, appena dietro Piazza Navona. Il Caravaggio era evidentemente noto per la sua capacità di copiare, e in effetti gli elenchi dell’inventario di Del Monte del 1628 annotano “Un quadro grande della Madonna, e Christo in braccio S. Anna e S. Gioseppe con cornice nera mano del Caravaggio”, e copia di Raffaelle (n. 396 nell’inventario Del Monte del 1628,vedi Z. Wazbinski Il Cardinale Francesco Maria del Monte, Firenze 1994, II, p. 593). Numerose sono le copie da Raffaello negli inventari di Del Monte e di Ottavio Leoni, anch’esse eseguite da Raffaello, come il suo firmato al Louvre “Belle Jardinière” (vedi M.T. Rizzo: Ottavio Leoni pittore (1578-1630) in “Studi romani”, Vol. XLVIII, 1999, p 25, Tav. V). L’immagine è stata registrata l’ultima volta nella Galleria Gustav Cramer, L’Aia. Ottavio fu anche strettamente associato a Del Monte, che lo chiamò suo allievo, e lo mandò a Firenze nel 1599.
Le prime biografie di Caravaggio sottolineano tutte il suo grande interesse per il dato reale, e Celio non fa eccezione. Ci parla del suo modo di ritrarre, e ciò fornisce l’opportunità di una spiegazione su ciò che comportava non solo quando dipingeva ritratti, ma riguardo all’osservazione diretta di soggetti dalla vita. Sebbene questo aspetto della parola ritrarre includesse il tipo di ritratti accurati che faceva Leoni, ad esempio (“girando attorno”), probabilmente con l’aiuto della camera oscura, questo era in riferimento alla fenomenale accuratezza con cui Caravaggio vedeva i suoi soggetti. Essi vennero apprezzati perché registravano come un documento le caratteristiche precise e l’abito dei suoi soggetti. L’espressione non era usata esclusivamente per la ritrattistica ma per in generale per quanto riguardava lavorare dalla vita, dalla natura, dalle persone, dagli edifici, dai paesaggi, dagli animali. Dal racconto di Celio è chiaro che i ritratti che fece per Lorenzo Carli, (dove  incontrò un altro siciliano, Mario Miniti) erano teste di santi piuttosto che ritratti. Secondo l’interpretazione della letteratura moderna, questi ritratti sono perduti o non disponibili per lo studio, (vedi F Cappelletti, Caravaggio, Un ritratto somigliante, 2009, p. 40/41, e nota 126). Si è spesso supposto che la descrizione di Baglione di “alcuni quadretti da lui nello specchio ritratti” all’inizio del suo resoconto della sua carriera romana (Vite, 1642, p. 136),o la menzione di Mancini dei ritratti di Caravaggio per Barberino (Maffeo Barberini) facciano riferimento al significato della ritrattistica realmente intesa, mentre la sua attività era ancora la replica o “la copia dalla vita”. Ciò dovrebbe essere visto come coerente con ciò che Van Mander (1604) riferisce, in uno dei pochi altri resoconti prossimi a quanto Caravaggio disse “Egli dice infatti che tutte le cose non sono altro che bagatelle, fanciullaggini o baggionate – chiunque le abbia dipinte – se esse non sono fatte dal vero, e che nulla vi può essere di buono o di meglio che seguire la natura. Perciò egli non traccia un solo tratto senza star dietro alla natura, e questa copia dipingendo. Questa non è d’altronde una cattiva strada per giungere poi alla meta; infatti di[ipingere su disegni, anche se essi ritraggono il vero, non è certamente la stessa cosa che avere il vero avanti a sé e seguir la natura nei diversi colori; però occorre che anzitutto il pittore sia così progredito in intendimento da saper distinguere  e quindi saper scegliere il bellissimo dal bello.”(Traduzione di S. Macioce, Michelangelo da Caravaggio, Fonti e Documenti, Roma, 2003, p. 309).Celio ci dice che Caravaggio non poteva distrarsi dal solo scopo della ricerca di ritratti e piaceri, dandoci un accenno di questa ossessiva preoccupazione con un’accurata registrazione di informazioni dal vivo [...]

link: