È il 21 aprile 1951 quando nelle sale di Palazzo Reale si inaugura a Milano la celebre Mostra del Caravaggio e dei caravaggeschi. Quasi settant’anni dopo, un volume di Patrizio Aiello edito da Officina Libraria, Caravaggio 1951, ne rispolvera le tante memorie, ne restituisce il contesto storico e culturale e sviluppa intorno a essa più ampie riflessioni – quest’ultime in particolare grazie agli autorevoli contributi di apertura e chiusura a firma di, rispettivamente, Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa.
Qualche commento sul prodotto editoriale in sé, intanto. Che si presenta con una bella e appropriata copertina dal sapore retrò. Altre soluzioni tecniche risultano meno apprezzabili. La rilegatura in brossura delle 224 pagine, ne rende per così dire 'antipatica' la consultazione: esse non scorrono facilmente e un amante (ammettiamo pure un po' fanatico) del libro, inteso peraltro come articolo da custodire con cura, dovrà forzarne l’apertura, specie per i rimandi alle note che non sono a fondo pagina. Inoltre, in appendice, la scala di grigi adottata non sarà la migliore per distinguere i dati certi da quelli ipotizzati, identificati appunto con due gradazioni (poco) differenti di colore.
Passando piuttosto ai contenuti, sulla cui qualità e ricchezza non si discute, ciò che contraddistingue Caravaggio 1951 è anzitutto la ricostruzione per quel che possibile del percorso espositivo, grazie soprattutto ad alcuni scatti fotografici degli Archivi Alinari, vero punto di partenza della ricerca. La sezione iconografica consta in totale di 33 illustrazioni in bianco e nero, e non si può tacere che un formato maggiore avrebbe consentito di apprezzare meglio alcuni particolari (quadri visti di taglio, o più lontani dall’osservatore etc). L’autore si è comunque speso molto sugli ingrandimenti, fino a notare dettagli come i singoli libri in vendita nel bookshop di Palazzo Reale.
Quest'ultimo punto, indice di accuratezza, non sembri al contrario un ostinarsi fino ad aspetti più di contorno, rispetto a un evento che di fatto è entrato nella mitologia. È così ad esempio che per il numero di visitatori si fanno cifre discordanti (e tutte stimate, se per stessa ammissione del commissario tecnico fu assente un «servizio statistico»): si va dal comunque ragguardevole «circa 400.000» che il volume menziona, al forse un po' troppo generoso «500.000» (da ultimo riportato tra i débats in "Studiolo" 8-2010). Certo è che fu una rassegna dalla portata straordinaria, mai vista prima e impensabile da potersi ripetere poi. Un “Miracolo a Milano”, verrebbe da dire evocando il film di Vittorio De Sica che uscì proprio in quel 1951. Aiello ne richiama i visitatori illustri, facendo menzione di Giorgio Morandi e di alcuni storici dell’arte e politici. Piace in questa sede ricordare anche il premio Nobel Dario Fo che, nello spettacolo del 2003 Caravaggio al tempo di Caravaggio, dichiarava di aver «partecipato addirittura all’allestimento»; forse un lapsus tuttavia se, nella trasposizione editoriale, scriverà più semplicemente di essere stato all’inaugurazione, invitato con tutti gli altri allievi dell’Accademia di Brera.
E dunque l’immagine come cuore dell’opera bibliografica. Per cui, citando David Hockney, si giunge (in postfazione) a parlare di critica della fotografia e ci si sofferma sul rapporto tra realtà e sua riproduzione. Non è qui il solo coinvolgimento personale a impormi di aggiungere per completezza, rispetto al «quanto di meglio offre la fotografia contemporanea in uno scatto da photoservice» sui laterali Contarelli, un rimando a quella che è a la più aggiornata (2018) campagna fotografica a San Luigi dei francesi, eseguita da Mauro Coen (e già pubblicata da Sara Magister in Caravaggio. Il vero Matteo). Peraltro, anche chi scrive ha avuto occasione di fare, a partire da un esempio caravaggesco, una breve «riflessione sull’utilizzo delle riproduzioni fotografiche» e sui diversi risultati cui possono condurre negli studi, e per questo si rimanda al numero 23-2017 di “ArtItalies”.
Tornando piuttosto alla mostra, è interessante seguirne la gestazione. Spuntano fuori difficoltà incontrate ma anche continue aggiunte di quadri in fase progettuale, grandi personalità che si sarebbero spese in suo favore o che viceversa non avrebbero favorito la concessione di taluni prestiti (fra queste, Giulio Andreotti e i non ancora saliti al soglio pontificio Giovanni XXIII e Paolo VI), dissapori tra membri della commissione per la scelta delle opere (su tutti, quelli tra il commissario tecnico Roberto Longhi e Lionello Venturi e, ancora, tra il primo e l’ICR, per non dire sia pure a livello più episodico tra il solito Longhi e Matteo Marangoni). Vien fuori persino che, come in reazione alla mancata concessione della Deposizione di Cristo, si pensò in un primo momento di esporre un suo supposto bozzetto, di cui oggi non si ha traccia. Qui l’autore, nel ricordare la vecchia ipotesi di Maurizio Calvesi di collegare al quadro vaticano lo «sbozzo» del dipinto pagato a Merisi da Fabio Nuti nel 1600, manca di precisare che lo stesso studioso romano, come in tanti d’altronde, è oramai giunto alla conclusione che quel bozzetto citato dal documento Nuti fosse pertinente non alla Deposizione, bensì alla Natività di Palermo (sull’intera questione, vedi uno specifico contributo su "Valori Tattili" 9-2017).
A ogni modo, almeno il quadro dell’oratorio di San Lorenzo andò in mostra, rimandando alla sua chiusura l’atteso restauro per cui prima non si era fatto in tempo. E lì, notizia questa inedita, sia pure solo per un particolare fu immortalato per la prima volta in una foto a colori [...]
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