M.M. (Michelangelo Merisi Mario Minniti Maurizio Marini)
Il tema dei “doppi” e delle copie da Caravaggio è tra i più affrontati dagli studi moderni, Mario Minniti. al contrario delle fonti seicentesche che l’hanno quasi del tutto ignorato; eppure quel tipo di produzione sembrerebbe essere stata piuttosto fiorente, a giudicare dal consistente numero di opere gradualmente riemerse dall’oblio. Il più antico tra gli storiografi del Merisi, Giulio Mancini, testimonia come nel 1607 circolassero già copie anonime da suoi dipinti. Se è risaputo che la maggior parte delle copie da Caravaggio furono prodotte tra il 1610 e il 1640 circa, dunque più o meno a partire dall’epoca della drammatica scomparsa del maestro fino alle prime avvisaglie dell’arte barocca, non si sa però con certezza quando prese avvio questa pratica, che pare a lui non fosse del tutto gradita, per lo meno dopo la sua consacrazione ufficiale sulla scena artistica romana: lo si deduce, per esempio, dalle deposizioni nel famoso processo per diffamazione intentato da Giovanni Baglione nel 1603, quando il Merisi usò il verbo “impiastricciare” riferito a Mao Salini, un termine spregiativo utilizzato a quei tempi proprio per “bollare chi, incapace di vera creatività, fa copie e falsificazioni”.
Ancora il Mancini ricorda che nei primi poverissimi tempi romani Michelangelo da Caravaggio fece “copie di devotione” per “Monsignor Insalata” (Pandolfo Pucci) ed è ormai notorio l’impiego del lombardo nella realizzazione di dipinti seriali in diverse botteghe, per quanto modeste, del centro di Roma. Ciò consente di non escludere a priori la possibilità che, almeno nella prima fase romana di estremo bisogno, il Merisi replicasse – per vendere e, dunque, guadagnare qualcosa per sopravvivere – alcune proprie invenzioni di cultura “giorgionesca”: tali erano giudicate nella capitale quelle pitture caratterizzate dal “tonalismo” lombardo-veneto “esportato” da Michelangelo in un’Urbe dominata dalla cultura post-raffaellesca, artificiosa ed elegante, del futuro “Cavalier” d’Arpino. E’ inoltre razionalmente assai probabile che pure qualche suo compagno di lavoro possa essersi cimentato nella replica di insoliti soggetti figurativi come il “Mondafrutto”, il “Ragazzo morso dal ramarro”, quello con caraffa di rose, ecc., ricordando che ognuna delle redazioni note è stata accettata o rifiutata a seconda delle interpretazioni tecniche e critiche di ciascuno studioso intervenuto sull’argomento, al contrario di altre composizioni del Caravaggio replicate con più significative varianti e accettate come autentiche senza riserve: si vedano ad esempio la Buona ventura e la Cena in Emmaus, mentre la questione della “doppia” redazione del Suonatore di liuto è più contestata dal momento che negli ultimi tempi non tutti gli studiosi sembrano più credere all’autografia del Merisi per la versione già Wildenstein.
Certo è che, fino al tragico omicidio di Ranuccio Tommasoni del 1606, non erano ancora moltissime le repliche da Caravaggio in circolazione: ad esse è stato spesso associato il nome di uno dei più stretti amici del maestro lombardo, Prospero Orsi, detto delle Grottesche. Definito romano sia dal Mancini che da Giovanni Baglione, quest’ultimo fu più precisamente di famiglia viterbese (di Stabia, oggi Faleria), certamente non di Brescia, come talvolta viene ancora detto, a causa della omonimia del tutto parziale con lo scultore – parimenti attivo nella capitale – Prospero Antichi detto, appunto, il Bresciano. Ma non è questo l’unico fraintendimento che aleggia intorno alla personalità dell’Orsi: in attesa dello studio monografico su questo artista annunciato da Riccardo Gandolfi, poche sono attualmente le certezze sulla sua attività prettamente pittorica, per lo più legata alle decorazioni a grottesche (non a caso gli fu affibbiato proprio quel soprannome), una specialità artistica ben poco considerata [...]
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